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Giampietro Agostini photography
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Testo di Roberta Valtorta
Nottetempo. Milano 1994/2004, Edizioni della Meridiana, 2005


Giampietro Agostini - Milano

Notte, colori, tecnologia, desideri

La luce rende possibili i colori e con il suo mutare li muta, come ben sappiamo vivendo e come studiavano gli impressionisti, come sanno i fotografi; il buio della notte cancella i colori ai nostri occhi.
La fotografia notturna, quando viene eseguita con pellicola a colori, estrae i colori dal buio e li trasfigura. Per fare questo, si appiglia a qualunque fonte di luce vi sia nell'ambiente, e di essa si nutre per quanto è possibile. Senza luce non c'è fotografia.
Nella città regna la luce artificiale, la luce data dalla tecnologia, ed è questa la luce che genera la fotografia, la irrora. Se i colori avessero corpo, diremmo che la luce artificiale li plasma. Ne mette profondamente in discussione l'assolutezza, fa vacillare il senso del mondo che costruiamo nella percezione quotidiana.
In fotografia, nella città, la notte è diversa dalla notte, e siamo di fronte all'immagine di una notte doppiamente tecnologica: data dalla tecnologia della macchina fotografica e dei supporti sensibili e contemporaneamente dalla tecnologia della luce.
Notte artificiale, dunque.
Ma tutto questo non desta in noi più alcuno stupore, poiché abbiamo visto ormai ogni tipo di immagini del mondo, ogni tipo di giorno e ogni tipo di notte rappresentata, nella pittura, nella fotografia, nel cinema, nel video: sappiamo accostarci a ogni tipo di spazio, forma, colore; viviamo in continua vicinanza con realtà visive tecnologiche che ci paiono tutte possibili: la fotografia prima, e successivamente il video e l'immagine digitale hanno costruito dentro di noi quell' "effetto realtà" che rende plausibile ogni immagine, presa direttamente dal reale sensibile oppure creata.
In questo contesto, e in questo soltanto, possiamo oggi collocare le fotografie notturne a colori realizzate a Milano dal 1994 al 2004 da Giampietro Agostini – e invece molto lontano da qualunque discorso descrittivo, seppur, come si diceva anni fa, "interpretato".
La nozione di interpretazione è stata completamente distrutta dal senso di artificialità che invade ogni tipo di comunicazione contemporanea. La fotografia ha vissuto cambiamenti radicali, e oggi i nostri occhi non possono più guardare le immagini fotografiche nel modo al quale eravamo abituati anche solo pochi anni fa. Non è più nella realtà esterna del mondo che cerchiamo riferimenti per tentare di capire i misteri delle immagini, è piuttosto in una realtà più lontana e indeterminata, che indiscutibilmente è una realtà che si genera all'interno delle immagini stesse.
Che cosa racconta dunque Agostini quando presenta una città fatta di oggetti architettonici verdi, rosa, blu, azzurri, dorati, di cieli nerissimi o magicamente pastellati, cielo e terra che si scambiano i colori, strutture industriali che si trasformano in gioielli splendenti, figure che appaiono all'interno di scenografie, si ergono sopra palcoscenici, appaiono al di là o al di qua di quinte, a formare realtà che sembrano esistere solo perché le ha rese visibili l'alzarsi di un sipario?
Che cosa è tutto questo? È teatro? Cinema? È finzione tecnologica?
È immagine. Alla fotografia non chiediamo più di descrivere nulla.
Milano non è questa, quando viviamo, di giorno o di notte che sia. Nelle fotografie di Agostini troviamo una città metafisica, surreale, pop, lunare, una città del passato e del futuro insieme, fuori dal tempo dunque; deserta oppure abitata da persone che si presentano improvvisamente sulla scena, come ombre, o masse di figure indifferenziate, piccolissime, pura texture. Figure vere insieme a figure di pietra, volti rappresentati. Anche le persone, come le sculture, sono pure immagini, e l'angelo di una guglia del Duomo, figura finta che guarda fissa la città vera è uguale a una delle persone vere che guardano l'Ultima Cena, gruppo di figure rappresentate oltre che immaginate. E non vi è differenza fra centro e periferia, né fra zone più belle e meno belle della città: le mura del Castello Sforzesco sono belle come la facciata della costruzione della Esselunga. Die Welt ist Schön è il titolo che Albert Renger Patzsch diede al famoso libro nel quale, fin dagli anni Venti, indicava che una volta fotografata ogni cosa del mondo diventa bella: volti, mare e campagna, animali, edifici industriali, foglie, strade, cielo, ponti, ferrovie. Si trattava, allora, di una fotografia analogica che attraverso il vigore delle avanguardie prendeva coscienza di sé; il colore tecnologico della notte copre oggi di meraviglia gli stridori della città contemporanea, riveste le cose, le anima e le rende splendenti, elegantissime. La bellezza è del tutto conquistata. Ma non possiamo dire che questi luoghi della Milano notturna di Agostini assomiglino propriamente all'ambiente dei sogni. I sogni non hanno colori così belli, spazi così ben delineati, campiture così definite: offrono invece immagini caotiche, spesso incoerenti e sfilacciate. Certo, in queste fotografie vediamo una Milano prevalentemente vuota, e il vuoto, sì, è un elemento che abita i sogni come anche certe fotografie di taglio surreale. Che si tratti dunque di una colorata città sognata alla maniera di un sogno ideale e assoluto, il sogno della metafisica più che il sogno del surrealismo o, più ancora, il grande sogno delle favole?
Agostini sembra costruire la scenografia possibile di una città, un nuovo disegno che la pulisce e la stacca dal disordine della quotidianità e da quel tono "medio" che è l'anima di Milano. In queste fotografie la città non solo è più splendente, ma anche più grande e spaziosa, ricca di sbocchi prospettici di cui la vera Milano è priva, straordinariamente liberata da quella segnaletica stradale e da quel cattivo arredo urbano eccessivo che la caratterizzano, nonché dalla fittissima popolazione di comunicazioni pubblicitarie che disordinatamente e aggressivamente la segnano, in nome della produzione e del mercato. Si tratta dunque di un desiderio di pacificazione con la città? Forse, allora, la meraviglia dei colori, creazione della notte e della tecnologia, ci parla di un bisogno di luoghi altri, luoghi della fantasia e dell'arte, che cancellino il grigio e il caos di una città affollata, triste e generica, nei quali le persone non mostrino il loro vero volto, lo sguardo basso, ma appaiano come figure immaginate, luoghi che incarnino la gioia del vedere, la bellezza, la perfezione delle cose inventate.