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Giampietro Agostini photography
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Testo di Roberta Valtorta
Il campo e la cascina, Diabasis Editore, 2004
Progetto Osserva.Te.R.


Giampietro Agostini - Rurale - Il campo e la cascina

La terra e le sue strutture

Fotografare oggi la campagna significa verificare, in fondo, ciò che resta del rapporto fra l'uomo e la natura. Certamente la terra coltivata non è la natura: non è quel modo originario del mondo, non è la wilderness del mito americano, non è neppure il paesaggio infinito, l'orizzonte fra terra e cielo, fra terra e mare, della pittura romantica di noi europei. La terra coltivata parla di lavoro, del lungo processo di antropizzazione attraverso il quale l'uomo ha dato forma, molte forme alla terra, l'ha incisa e disegnata, scavata, è intervenuto su di essa costruendo nel tempo strutture, oggetti, creando presenze e lasciando, sempre, il suo segno.
La campagna è però quella natura mediata dall'azione umana che ha il significato ormai, per noi contemporanei, della natura stessa: è la memoria della natura totale che non è più, è la natura che si è trasferita nei luoghi dell'uomo, nei campi, laddove ancora non è arrivata la città a coprire del tutto con i suoi codici ogni altro linguaggio residuo del paesaggio. E dunque, quando ci accostiamo alla campagna, noi crediamo di accostarci alla natura.
La campagna è per noi la natura ancora possibile.
Più lontano e più raramente, vi sono la vastità del mare, la grandiosità della montagna, il deserto sterminato e muto: ma noi sappiamo che anche queste parti della terra sono state toccate dall'uomo e hanno, in fondo, perso la loro solitudine e la loro grandezza originarie. L'uomo è ovunque.
E dunque la campagna, pur carica di segni, è per noi un modo possibile di essere della natura contemporanea. Molto di più non abbiamo.

[...] Giampietro Agostini conduce uno studio sull'agricoltura che sta finendo, scegliendo coerentemente come strumento di lettura il bianco e nero fotografico classico, il chiaroscuro storico che a sua volta oggi muore, la fisicità della polaroid che viene strappata: elementi di una fotografia che non è più. Ci parla degli oggetti che l'uomo ha posto nel paesaggio, di archeologia rurale, di strutture abbandonate o profondamente trasformate (un vitello, animale dell'uomo, qua e là qualche sparsa presenza umana assai simbolica, in forma di ritratto: i lavoratori della campagna, oggi spesso extracomunitari). È una sorta di "omaggio ai Becher", una catalogazione di silos, trebbiatrici, trattori in disuso, protagonisti meccanici del lavoro rurale: personificazioni, apparizioni sulla scena delle cascine. Agostini ci dice in forma molto definita e attraverso immagini fortemente strutturate che l'uomo ha davvero riempito di segni della sua presenza tutto il paesaggio, ma che questi segni vengono via via superati dalla storia, che li divora. Ma nuovamente ecco apparire una linea dell'orizzonte importante che si colloca a metà dell'inquadratura, a dividere la terra dal cielo e a indicare che oltre l'evidenza degli oggetti, oltre la forza delle strutture, esiste la lontananza del mondo. La presenza di una serie di paesaggi costruiti proprio a partire dall'orizzonte funziona da elemento dialettico, da contrappunto, all'interno di una ricerca volta principalmente all'osservazione ravvicinata delle strutture del lavoro, e introduce una sorta di pensosità che rimanda appunto alla natura che esisteva in questi luoghi ben prima che l'uomo iniziasse a lavorare la terra e a costruire strutture e oggetti.


Testo di Roberta Valtorta
Lombardia: i paesaggi della natura, Silvana Editoriale, 2010
Progetto Osserva.Te.R


Giampietro Agostini - Rurale - Lombardia: i paesaggi della natura

Osservare Osserva.Te.R

A dieci anni da una giornata di studio nella quale fui invitata a parlare del progetto Osserva.Te.R (1), mi piace riutilizzare oggi lo stesso titolo che con un gioco di parole diedi allora al mio contributo: Osservare Osserva.Te.R. L'idea era allora, e ancora è oggi, quella di osservare questo progetto di committenza sul paesaggio agricolo lombardo durato molti anni per cercare di capirne la specificità e il significato.
Partiamo dunque da un primo dato: anche qui, in un contesto pubblico che si occupa di agricoltura e di paesaggio agricolo, in particolare di un paesaggio segnato dal fondamentale elemento dell'acqua come è quello lombardo, come in molti contesti pubblici italiani a partire dagli anni Ottanta, è entrata la fotografia quale strumento principe di osservazione della realtà contemporanea. Non però una fotografia intesa come mero strumento di registrazione e di "documentazione", bensì, come ben sappiamo, una fotografia di tipo autoriale, una fotografia cioè nella quale l'accento è posto sul metodo, sul punto di vista del fotografo, sull'organizzazione formale e sulla costruzione concettuale del lavoro.
Come ho avuto modo di osservare in altre occasioni (2), il tema dell'autorialità della fotografia inizia a imporsi in Italia solo con gli anni Ottanta quando alcuni mutamenti rendono possibile e anzi necessaria la figura di un fotografo autore: una sempre più significativa attività editoriale in materia di fotografia; il decollo di un dibattito sul suo statuto teorico e artistico; un crescente numero di eventi espositivi in spazi pubblici e privati; una prima, seppur parziale, apertura del mercato dell'arte verso la fotografia (grazie anche all'attenzione che gli artisti delle neoavanguardie le avevano rivolto nel corso degli anni Sessanta e Settanta); il timido avvio di un'ipotesi istituzionale volta a collocare la fotografia tra i beni culturali, affacciatasi in un convegno su questo tema svoltosi a Modena nel 1979 e maturata poi ben vent'anni dopo, nel 1999, grazie al decreto legge n. 490.
Presente nelle istituzioni europee e statunitensi da decenni (3), la fotografia in Italia ha molto faticato da un lato a collocarsi nelle istituzioni, dall'altro a entrare nel mercato dell'arte. Se essa diventa, appunto a partire dagli anni Ottanta, autoriale, questo si deve non solo ai motivi indicati sopra, ma anche ai fotografi stessi (i più colti e coscienti di loro) i quali si trovano spesso a operare non solo come produttori di immagini ma anche come teorici, docenti, promotori di iniziative che puntano ad affermare la fotografia come parte significativa della cultura contemporanea (4). Si pensi, a rappresentarli tutti, a Luigi Ghirri.
Nel nostro paese dunque si afferma la parola autore, a indicare una consapevolezza e una soggettività del fare: qualcosa di diverso dalla produttività, seppure impegnata e talvolta creativa, della professione. Una parola che timidamente evita quella più impegnativa di artista, che, attribuita al fotografo, presso la cultura italiana entra in pieno uso solo nella seconda metà degli anni Novanta, per affermarsi, talvolta abusata, con il nuovo millennio. Ma se nel mercato delle merci di segno creativo il fotografo è ormai chiamato artista senza esitazione, negli ambiti istituzionali italiani la parola autore resta in vita ancora oggi. In particolare, l'autorialità della fotografia viene spesso chiamata in causa nei casi in cui si tratti di campagne fotografiche dedicate al paesaggio, indagini sul territorio che si svolgono nell'ambito di progetti di committenza pubblica, a indicare che il fotografo non si limita a eseguire un buon lavoro professionale di "documentazione", ma sa dare una lettura personale del territorio: anzi, è esplicitamente chiamato dal committente a esprimere il suo punto di vista.
Così (evitiamo qui di citare le più importanti campagne fotografiche pubbliche svoltesi a livello internazionale – 5) è stato per vari progetti di committenza pubblica realizzati in Italia, da quelli svoltisi nella città di Napoli nella prima metà degli anni Ottanta, al noto grande progetto promosso dalla Provincia di Milano Archivio dello spazio, 1987-1997, a Venezia Marghera, della fine degli anni Novanta, ai molti incarichi dati a fotografi italiani e internazionali dall'associazione culturale emiliana Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, alle davvero numerose esperienze di carattere locale promosse da Comuni, Province, Regioni italiane, per giungere, ormai negli anni Duemila, ai progetti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali-DARC, denominati Atlante italiano 003 e Atlante italiano 007 (6). L'imperativo è stato, in tutti questi anni, quello di costruire degli archivi fotografici della contemporaneità i cui contenuti visivi potessero via via dar conto dei grandi mutamenti in corso in un paesaggio che da industriale diventava postindustriale, con tutta la complessità e per molti aspetti l'indeterminatezza che la trasformazione in atto comportava.
Le molte letture che i fotografi hanno saputo dare di questo mutare del volto dei nostri territori si sono rivelate fondamentali, e va considerato che il procedere delle esperienze di committenza pubblica è andato di pari passo non solo con la trasformazione del paesaggio a cui si accennava, ma anche con il profondo cambiamento dei codici della fotografia contemporanea, segnato da una accesa tendenza alla concettualizzazione e alla costruzione di strutture narrative sempre diverse – e soprattutto con il cambiamento di statuto della fotografia: dalla registrazione di tipo documentario alla progettualità artistica. Anche l'atteggiamento della committenza è cambiato, nella direzione di una crescente disponibilità e fiducia verso la libertà lasciata al fotografo durante il suo lavoro di lettura del paesaggio. Molti passaggi di significati e di ambiti si sono di conseguenza susseguiti: dagli archivi alle mostre, sempre più concepite come vere e proprie mostre d'arte; dalla creazione di una memoria dei luoghi fornita dalla "documentazione" alla promozione del lavoro artistico stesso; dalla fiducia nella fotografia come semplice strumento di descrizione all'idea di fotografia come una delle tante arti che lavorano a costruire comunicazione, azioni, operazioni che prendono spunto dal reale per aprirsi a una concettualità più lontana e complessa. Anche le fotografie realizzate nell'ambito del progetto Osserva.Te.R testimoniano esattamente questi cambiamenti e questi passaggi, dimostrati, prima di tutto, dalla diversità dei metodi di lavoro degli undici fotografi incaricati via via di svolgere le campagne, nonché delle loro idee di fotografia. Cerchiamo dunque di indagare questa diversità, che riteniamo sia l'elemento che caratterizza l'insieme delle fotografie di Osserva.Te.R.
Troviamo dunque in Giuseppe Morandi (Uomini terra lavoro), un intenso narratore della cultura contadina padana, un difensore, si può dire, delle tradizioni popolari, un rispettoso e umano cantore della storia delle classi rurali. La sua fotografia si lega schiettamente al concetto di documento, di immagine che si fa storia, e trova radici nel modo dei grandi fotografi della Farm Security Administration, o del Neorealismo italiano. È documento sociale nel senso più sincero e partecipato del termine.
La fotografia di Beniamino Terraneo (La terra e le acque) appartiene a una tradizione fotografica del tutto diversa, cioè quella della grande fotografia americana degli Ansel Adams e degli Edward e Brett Weston, e anche di Minor White. Egli ricerca infatti la bellezza della natura, anche il mito della natura, in certo senso. Quello che, seppur diversamente, ricercava il nostro Paolo Monti, per esempio. Una natura che, nonostante le gravi contaminazioni che subisce nel presente, può ancora rappresentare un elemento di armonia e di salvezza per l'uomo. Una fotografia a suo modo classica, che trova nella perfezione della stampa un imprescindibile punto di forza.
Gabriele Basilico (Architetture d'acqua per la bonifica e l'irrigazione) è uno dei maestri della fotografia contemporanea italiana e internazionale. Forte dello "stile documentario" al quale è coerentemente fedele, lavora da molti anni a un grande affresco della società occidentale indagando il paesaggio nei cambiamenti dalla fase industriale matura a quella fase post-industriale. Studia le strutture costruite dall'uomo e le pone a confronto, le osserva con sguardo saldo cercandone le ragioni e l'identità, cosciente della grande complessità di fronte alla quale il recente sviluppo economico ci ha posti. Per Basilico il paesaggio è sempre paesaggio antropizzato.
Diversa è la visione di Francesco Radino (Le vie d'acqua: rogge navigli e canali). Egli infatti trova nell'intricato tessuto della realtà (fatto di elementi naturali ed elementi culturali insieme) strutture, materie, presenze iconiche anche cariche, talvolta, di mistero: il mistero delle molte e irripetibili forme che si offrono allo sguardo del fotografo. Radino non descrive, semmai evoca, non documenta, ma tende a far affiorare dalla concrete forme della realtà significati altri, talvolta coincidenti con l'aspetto "oggettivo" delle cose, talvolta spostati, lontani.
Fortemente legate alle forme del mondo è anche la luminosa visione di Mimmo Jodice (Gli iconemi: storia e memoria del paesaggio). Nella sua imponente, variegata opera, il grande fotografo napoletano si muove in una dimensione visionaria e, come spesso è stato osservato, metafisica. La sua sapiente costruzione del paesaggio si radica nella profonda conoscenza del vedutismo italiano e mette in gioco un importante processo di straniamento grazie al quale egli arriva a sottolinea gli aspetti simbolici e per così dire assoluti del territorio che affronta.
Molto diverso e decisamente analitico è il lavoro di Vincenzo Castella (Campi di colore), che opera a individuare i concetti stessi del paesaggio. Tra questi quello del colore, sul quale è impegnato da molti anni, prima attraverso la fotografia analogica, poi attraverso l'intervento digitale. Lavorando in modo sottilmente arbitrario e sempre antispettacolare sull'immagine, approfondisce la relazione tra colore "naturale" del paesaggio e colore "costruito" della rappresentazione fotografica, tra colore visto dall'occhio umano e colore visto dalla macchina e poi elaborato dalla tecnologia.
Vittore Fossati (Il campo) è erede della raffinata visione di Luigi Ghirri, sintesi concettualità e narrazione poetica dei luoghi. Ogni sua fotografia è un vero e proprio saggio sulle regole della rappresentazione, una misurazione sapiente delle speciali relazioni instaurate dalla visione all'interno dell'inquadratura. Fossati sa trarre dal paesaggio una sorta di abbecedario delle forme e dei colori degli elementi che lo costituiscono, secondo un lavoro di risistemazione compositiva che al tempo stesso rende onore alla classicità, la sfida e la rilancia a noi non senza ironia.
Giampietro Agostini (La cascina) è un delicato documentatore nel senso più completo del termine. Egli agisce nel rispetto dei luoghi e delle persone che li abitano costruendo piccole equilibrate narrazioni sempre a cavallo tra fotografia sociale (l'autore si è formato nel reportage) e schietta analisi degli ambienti e degli oggetti dell'architettura. Come nella più rigorosa fotografia delle origini, nel lavoro di Agostini la figura umana è metro di misura dello spazio, e lo spazio non esiste senza l'uomo.
La fotografia di Francesco Jodice (I nuovi segni del territorio) ha i colori della più urgente contemporaneità. Si lega al cinema, al fumetto, alla rappresentazione massmediale, media tra documentarismo e costruzione fiction. Importante narratore di storie della globalizzazione economica e culturale, Jodice nei luoghi della contemporaneità non cerca ciò che rimane della storia passata, ma ciò che potremmo definire il paesaggio futuro, cioè quei macro-segni che ci parlano di una nuova identità dei luoghi che si è manifestata in anni recenti in modo improvviso, ben al di là della continuità.
Maurizio Bottini (Le colline moreniche del Garda), invece, propone attente indagini del paesaggio nei diversi elementi che lo definiscono nelle sue stratificazioni naturali e storiche. Con sguardo pacato e talvolta romantico racconta come gli uomini attraverso il loro lavoro hanno plasmato il territorio, ma anche come la natura stessa lo ha lentamente costruito nel tempo.
Infine, Cristina Omenetto (La gente e il paese) offre una visione palesemente soggettiva e interiorizzata dei luoghi, molto lontana, anche per quanto concerne l'aspetto tecnico delle sue fotografie, da intenti di tipo documentario. Compie dunque attraversamenti mentali ed emotivi di paesaggi e momenti di socializzazione, costruisce piccole storie, quasi pagine di un diario personale, appunti, minuscole trascrizioni di sensazioni suscitate dall'incontro con i luoghi e le persone.


(1) Convegno Regione Lombardia-URBIM Lombardia "Il Progetto OsservaTeR", Milano, 22 maggio 2000

(2) cfr. Roberta Valtorta, Carta d'identità di una collezione, in: Francesca Fabiani (a cura), MAXXI Architettura. Fotografia. Le collezioni, Electa, Milano 2010.

(3) Marina Miraglia, Il patrimonio fotografico italiano: stato di conservazione e progetti di tutela, in: Uliano Lucas (a cura di), L'immagine fotografica 1945-2000, Storia d'Italia – Annali 20, Einaudi Editore, Torino 2004.

(4) Su questo ho scritto in diversi miei saggi. Cfr: La fotografia di paesaggio come fotografia, in: Achille Sacconi e Roberta Valtorta (a cura di), 1987-1997 Archivio dello spazio. Dieci anni di fotografia italiana sul territorio della provincia di Milano, Art&, Udine 1997; Stupore del paesaggio, in: Roberta Valtorta (a cura di), Racconti dal paesaggio. 1984-2004 A vent'anni da Viaggio in Italia, Museo di Fotografia Contemporanea/Lupetti Editori di Comunicazione, Milano 2004; Viaggi organizzati. Appunti per una ricostruzione della cultura fotografica contemporanea lungo la Via Emilia, in: William Guerrieri (a cura di), Via Emilia 2. Luoghi e non luoghi, Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, Rubiera 2000.

(5) Cfr.: Roberta Valtorta (a cura di), Fotografia e committenza pubblica. Esperienze storiche e contemporanee, Museo di Fotografia Contemnporanea/Lupetti Editori di Comunicazione, Milano 2009.

Per riferimenti bibliografici si vedano le note 2 e 4.

(Parigi-Milano, 18-28 novembre 2010)